#COME IL MARE IN UN BICCHIERE - Chiara Gamberale
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Un mito vuole che il dolore ispiri chi scrive: nel mio caso non è così, non è mai stato così. Almeno per quanto riguarda questo dolore - che poi dolore esattamente non è. Gli effetti collaterali delle medicine che ho dovuto prendere e gli odori dei posti dove, nei momenti più duri, sono stata costretta a rifugiarmi, sono anzi gli attentati più pericolosi che la mia ispirazione ha ricevuto. Perché è impossibile scrivere, quando si finisce tutti dentro. Dentro, per l'appunto: non ho mai sopportato che delle persone con un certo tipo di problemi si dica, fuori di testa. Semmai è il contrario. Stare male significa essere prigionieri della propria testa, barricati in un bunker dove forse speravamo di difenderci da una qualche guerra e invece ci ritroviamo nel focolaio più pericoloso di un'altra guerra, senza possibilità di tregua.
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pdV, che doveva tornare a Milano in serata, non può partire. Il nostro amore è sempre vissuto di sfuggenti e, nel bene e nel male, febbrili momenti insieme e di lunghe distese di tempo ognuno nella sua città. Non siamo mai stati bravi a mettere in comune quello che ognuno di noi portava in dote dal passato, finché non è arrivata Vita che ci ha imposto e permesso un'occasione per parlare al plurale, dire noi, è nostra.
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“In me sto bene come il mare in un bicchiere ma se sono confinato in questo calice qualcuno mi può bere.”
Non ricordo più se Vittorio li avesse scritti proprio per me questi versi: giurerei di sì, ma perfino quando non abbiamo l'occasione di conoscerli personalmente a volte ci sembra che i poeti scrivano per noi, solo per noi. Quella breve poesia, a sedici anni, aveva lei spiegato a me chi ero: una persona insofferente a ogni limite contro cui il suo desiderio sconsiderato di assoluto era costretto a venire a patti. E che non sapeva cosa farsene del primo di quei limiti: il suo corpo. Ma, suggeriva la poesia, quel corpo, quel bicchiere così ridicolo per contenere l'immensità del mare, è anche l'unica occasione che abbiamo per incontrare gli altri. E per giocare da capo, grazie agli altri e per colpa degli altri, la nostra partita con l'assoluto.
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E sarà che questo isolamento mi riporta a una vita molto diversa da quella che fatico a festeggiare con chi adesso la festeggia, mi rimanda alla vita prima di Vita: quando, appena potevo, partivo per un'isola lontana, possibilmente in Grecia o in Africa e fuori stagione. E all'improvviso quello che a Roma pareva impossibile diventava possibile. Anzi, veniva naturale. Scrivere e sbaraccare nelle mie storie. Dormire senza sonnifero. Non avere paura. Respirare. Eppure a volte mi sono ritrovata in situazioni complicate: come quando una mattina di febbraio, a Patmos, è saltata la corrente ed è tornata dopo cinque giorni. O quando a
Boavista, un'isola di Capoverde, una notte di dicembre, mentre tornavo in macchina dall'alimentari a casa, mi hanno tagliato la strada tre asini giganti e fuori controllo.
Ma il buio, l'acqua gelata e mille asini in fuga non mi sono mai sembrati davvero un pericolo, perché il pericolo era solo uno - sempre quello.
La rapacità di cui è capace la vita, appena si fa la nostra vita, con le sue stanze, i suoi impegni da rispettare, le sue scadenze, perfino le sue persone - da rispettare, amare, fare sentire importanti perché rispettino, amino, facciano sentire importanti noi, da tenere lontane, tenere vicine.
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Devi essere tu a prenderci confidenza, sapere che in certi periodi quella nuvola è il tempo migliore che puoi augurarti di avere lì - sempre lì: Dentro -, perché un sole che brucia i sassi potrebbe farti male quanto un acquazzone che gela le ossa. Allora l'importante è cercare attorno ai bordi bianchi e spugnosi della nuvola che cosa resta della persona che sei abituato a chiamare io, e ricominciare dai pezzi che trovi. Con la consapevolezza che proprio grazie alla nuvola, anche se non sopporti il plumbeo che si trascina dietro, può tornare la luce giusta per capire dove diavolo ti eri andato a nascondere stavolta.
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Quindi la libertà, mentre ci rende possibile essere la persona che siamo, rischia anche di boicottarla, quella persona, con il peso insopportabile di tutte le scelte che avremmo potuto prendere invece di quella che abbiamo preso, tutte le persone con cui avremmo potuto vivere, fare un figlio, scappare? Aiuto.
Che confusione.
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Come se bastasse dire sì e sì e ancora sì per disinnescare la rapacità, le invidie e i pensieri meschini di cui ognuno di noi, suo malgrado, si ritrova vittima. Come se bastasse servirsi al mondo con un limone in bocca, per saziare la sua fame eterna. Come se bastasse permettere alle urgenze di tutti di infrangere la distanza di un metro, per silenziare finalmente questa sensazione di una colpa vaga, antica e perduta che non mi abbandona mai, mai. E che per paradosso poi in torto mi fa finire davvero: ma con le persone che invece potrei amare liberamente e che liberamente mi amano, da cui il mostro invece rischia di distrarmi.
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- Io per salvare il cervello e la mia storia con Giuliana mi sto aggrappando a un solo pensiero.
- Quale.
- Che in certi momenti la distanza è una dichiarazione di amore assoluto. L'unico modo con cui possiamo proteggere e sostenere l'altro.

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