#NIENTE DI SERIO MA VEDIAMO - Claudia Valeriani
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Finiamo, mi va di tornare a casa, lui insiste per farmi restare, ma non è possibile. L'ultimo pezzettino di notte devo passarlo nella mia stanza, da sola, per potermi svegliare e trovarmi nel mio letto vuoto, tra le lenzuola che odorano del mio matrimonio finito: mi va bene cosí, io non voglio dormire con nessuno mai piú. Me lo giuro.
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In genere io resto, sapendo che la felicità non la puoi trattenere, ma almeno vederla passare sí, perdio.
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Forse perché quando sono in apnea dalla mia vita lascio uscire bolle d'ansia repressa come sfiati di balena. E poi mi sento piú leggera.
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Chi ti ha già conosciuto si porta dietro gli strati delle ere che si sono attraversate insieme, alterando le immagini di entrambi: ci aggiunge freschezza, illusioni, effluvi esotici. E nessuno ha voglia di rinunciare a tutto questo solo per notare che sei invecchiata, l'oggettività si sacrifica in un attimo quando conviene.
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Camminavo per via del Plebiscito, poi su, in via Nazionale, mentre quel sentore di silenzio mi prendeva al naso.
Lí per lí era una ventata che sapeva di fresco, ma dopo un po' iniziava a pizzicare, a far male, come quando respiri il cloro che poi ti brucia il naso e ti si tappano le orecchie.
E non senti piú niente.
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E invece gli uomini diventano eroi drammatici: cosí poetici dietro vetrine di bar impersonali, col loro bicchiere di rosso tra le mani in cui sciogliere dubbi e amori, che li mettono pure nelle belle canzoni.
Il punto però è che anch'io mi sento cosí e vorrei avere il diritto di essere cosí: con il bavero rialzato in giro nella notte, una meravigliosamente perduta James Dean. Che non ha neanche la piú vaga idea di cosa voglia dire essere me.
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Lui non è quello che ho sempre desiderato: dove la natura stessa del desiderio ti porta a costruire un castello d'uomo, lui è quello che mi sarei meritata. Cosí, d'emblée, come in quel gioco a carte coperte che chiamavamo «Sputo nell'oceano»: quando alla cieca riesci a pescare la carta gemella nel mare immenso delle coincidenze fortunate. Allo stesso modo, la donna che è riuscita a raccattare a carponi per Koma 1 brandelli della propria anima e a rimetterli insieme con la parvenza di un criterio, si merita a un certo punto che le capiti la carta d'uomo giusta. Uno capace di non scomporsi a contatto con la sofferenza, anzi che provi gioia nell'offrirle rifugio in una zona della vita un po' piú ampia e confortevole, dove lei possa finalmente rilassare i muscoli nei prati, tendere le orecchie solo ai buoni ritorni, lisciarsi il pelo nelle giornate di sole e, per una volta, non pensarci.
Deve capitare.
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«Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa. Chi ti potrà conoscere là dove taci?»
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Anche se sei un asociale, non hai un progetto di vita, anche se campi da sempre coi soldi di tua madre e non sarai mai un papà per i miei figli né un compagno per me, addirittura anche se sei un egocentrico che tutto ciò che
fa lo fa per piacer suo, che coccola sé quando coccola me, che mi massaggia perché io possa accarezzare, che mi canta le canzoni per sentire la sua voce, che mi nutre perché ha fame, che gode senza sapere se godo, che mi fa divertire per sentirsi spiritoso, che mi porta fuori per vedersi normale, che mi insegna l'aromaterapia perché gli compri i suoi prodotti. Ma ti compro tutte le pozioni che vuoi, purché il venerdi sera io possa lasciare i miei figli col padre, correre qui e chiuderla col mondo. Perché qui ho carezze, nutrimento, contatto, esisto. E non importa se non mi riconosci, se non mi senti, se non capisci: Io sí.
Fa caldo vicino a te, c'è tepore, c'è il disgelo.
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È frustrante ammetterlo, ma tutto succede a caso. Ci ostiniamo a infilare un fatto dopo l'altro come perline in una collana per vederci un disegno e chiamarlo destino.
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Ci sono persone a cui spalanchi subito tutte le porte d'accesso una dopo l'altra per fargli vedere, in fondo in fondo, dove possono trovarti. All'improvviso, senza imbarazzi né paure. Come mai? E chi lo sa. Di certo non per il tuo sesto senso, visto che, pure se non sono ladri, quando se ne vanno qualcosa se lo portano via sempre. Ma non fa niente, è cosí allegro vederli mentre ti corrono incontro.
Ci abbracciamo, ci ridiamo con gli occhi, ci emozioniamo. Ma perché non ha funzionato? Perché non può funzionare? Perché non siamo andati a vivere insieme? Perché non ci andiamo adesso, ora? Io non so rispondere. Credo nemmeno lui.
- Che bella che sei, - mi dice.
Che bello che è, penso.
Resto in silenzio
- No davvero, io ci penso spesso, sai, a come siamo bene.
Ți assicuro che ci penso piú spesso io, tra le pieghe di ogni lenzuolo cerco ancora la luce di un tuo messaggio diverso, che mi dica che sí, possiamo provare, che siamo simili e non ci siamo incontrati per caso.
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Di certo quello che mi disse mi arrivò dritto al petto e me ne andai lasciando lí tutto tranne che me. Presi l'ascensore, e non sentii i passi di nessuno rincorrermi giú per le scale, né udii il mio nome rimbalzare da una rampa all'altra come una pallina da tennis per colpirmi alla nuca con un: dài, torna su.
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Ci spogliamo e corriamo tra le onde, facendo quegli strilletti che sanno tanto di felicità, scivolando sulla battigia, rincorrendoci col fiatone, camminando sulle acque finché non diventano piú protonde e poi giú, giú, in un abbraccio che mi porta sempre piú giú e per la prima volta nella mia vita non ho paura dell'acqua. Non avevo mai neppure messo la testa sotto, credevo si morisse, pensavo che l'acqua mi sarebbe entrata nel naso, in bocca e mi avrebbe ucciso, invece no, basta non respirare, lasciarsi trasportare, stringersi forte, che poi si torna su, con le capoccette che riemergono come quelle dei delfini. Ci schizziamo ancora, ridiamo, ci rincorriamo, schiamazziamo. Tutti i bambini lo fanno. Fino a tornare fuori che fa un po' fresco e vengono le grinze sulle dita, per asciugamani i vestiti e nelle mie orecchie le corse e le tue risa, e d'improvviso quel silenzio tra noi, tu eri chiaro e trasparente come me, o mare nero o mare nero o mare né.
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Si potrebbe però dire che in questo anno e mezzo siamo usciti in pubblico oggi e una volta per andare a sentire del jazz, ma visto che pioveva e c'era traffico abbiamo preferito restare in macchina per poi correre a casa a fare l'amore, perché tanto «a noi del jazz alla fine non ce ne frega niente», e ridevamo. No, non sono precisa: c'è stata anche quella volta che dopo giorni di insistenze sono riuscita a portarti in montagna, dove io mi sono divertita piú di te a fare Heidi tra le caprette e a convincerti a salire su un cavallo. E ora sembra che andare in India sia come scendere al Pam a comprare l'acqua, e partire insieme un fatto che già davi cosí per assodato da farti muovere in autonomia. Non so come prenderla. Bene?
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«Abbiamo due vite. La seconda inizia quando realizzi di averne solo una». Questa la so, non è sua, ma fa niente, l'ha scelta. E ancora: « Voglio incastrarmı con te, e non sto parlando di sesso».
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Passiamo tre ore davvero divertenti, ogni tanto una sua mano va in giro per il mio vestito, è piacevole, mi lusinga essere toccata. Chiacchieriamo, cantiamo persino, ci piacciono gli stessi autori, piú o meno. Quando usciamo siamo veramente storti, perché di Boulevardier, che poi è un Negroni che sa di whisky, ce ne siamo fatti tre. A testa. Però mi sento cosí leggera, e che succede, poi? Mi accompagna a un taxi, mi saluta dal finestrino e dice che ci sentiamo domani. Incredibile. Come nei film americani: piegato in avanti, due colpetti con la mano alla portiera per dire all'autista vai, e la mano che sventola un saluto.
Non ho capito neanche bene cosa sia successo se non che mi sento avvolta. E il giorno dopo non mi scrive Buongiorno piú faccina sorridente oppure C'è il sole, La terra gira, D'inverno fa freddo, D'estate fa caldo, ma: «Se vai al nostro bar vedi ancora seduto lí il mio sudario di passione: aspettami alla stessa ora che cerco di tornare coi piedi per terra e rientrare nel mio corpo».
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Le sue mani si sparpagliano un po' șu e un po' giú, innocue. Dice che gli piace sentire le mie ossa sotto le dita. Lo capisco, piace molto anche a me. Ci baciamo. Ma poi penso che magari invece sarei scesa da quell'aereo e sarei riuscita a raggiungere Jacopo.
E mi pietrifico. Non mi diverto piú, inutile andare avanti, non ce la faccio. E cosí all'improvviso mi alzo, lo saluto e me ne vado, entro in macchina, la mia, basta taxi, e scrivo a Jacopo: «Mi manchi, come stai?» Chissà se è giorno o se è notte, se è sveglio e risponde. Magari sí. Lucetta, bling, risposta: «Tutto bene, peccato tu non sia qui, ma in compenso non sono dovuto uscire dal resort. Ah ah».
E cambio subito umore: non l'ho perso per sempre, mi pensa, andrà tutto bene, come si usa dire da un po'.
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Non gli dico che non mi è mai fregato niente di essere come un'attrice francese, delle citazioni, di giocare all'habitué, che mi piace solo il Negroni.
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Il primo tramonto è da Instagram, il mare calmo, il cielo rosso e azzurro. Noi due siamo da Instagram. E mando in memoria la mia gallery di stories: io che mi appoggio alla sua spalla, lui che non si scosta, io che guardo l'orizzonte pensando a quando alle sei di sera ero già a casa per la faccenda della doccia e i capelli, lui che invece mi insegna a lasciar andare il tempo, a farmi dire l'ora dallo svanire del sole, io che mi faccio trasportare tanto i ragazzi sono con gli amici, lui che dopo lo spettacolo del tramonto mi aiuta ad alzarmi e con un gesto indolore sfila quel pugnale di plastica dal buco nella sabbia, io che andando via abbracciata butto di nascosto lo sguardo indietro per assicurarmi che le ombre siano ancora lí e abbiano ripreso a respirare, tutto sommato felici di avermi rivista.
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Sono andata a vivere a Milano anche per avere la possibilità di finire le parole. Per interessarmi a qualcosa invece che fregarmene di tutto, per avere rispetto, speranza e tenerezza e, sí, anche ingenuità, che non è poi cosí bello essere sempre i piú furbi, quelli che non gliela si fa perché hanno già visto tutto. Bravi, ma che peccato. Questo pensavo e lo penso ancora. Poi l'ha detto pure Sorrentino. Siamo arrivati, riconsegno le chiavi al noleggio, niente graffi alla macchina.
Insomma, tutto a posto.
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E invece va tutto benissimo. Mi viene a prendere, mi stringe forte tra le braccia, che per me la vita può anche finire qua, sono a posto cosí, arriviamo a casa sua, facciamo l'amore. Non so piú che stagione sia, deve essere primavera qui, perché le gambe si liberano delle croste di ghiaccio, lo stomaco si decontrae, le rughe si aprono come foglie, gli occhi si riempiono di pagliuzze verdi e rientra la luce.
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Finché succedono le cose sei in compagnia, è quando non succedono piú che tutto intorno diventa silenzio. Come quando ti svegli la mattina dopo un forte trauma: la notte ha cercato di rimetterti insieme e coprirti, però poi arriva il risveglio. Ed è lí che lo vedi, cioè lo vedi proprio fisicamente. Il vuoto. La verità ti si schianta nel petto con tanta forza da farti male fin nelle ossa della faccia, e imprime sulla pelle la nuova realtà: che quella cosa che amavi non c'è piú e tu non puoi farci niente. E puro nulla, la materia del nulla, la pasta invisibile che riempie il nulla, ora lo puoi toccare. Non è vero che il nulla non c'è. C'è. E ha un peso specifico. Questo niente che trovi all'improvviso aprendo gli occhi nel letto è il vuoto cosmico. La voragine talmente insopportabile e priva di alternative che la natura ci ha dotati di un sistema di difesa per cui nel giro di qualche secondo, visto che non potresti uscire viva dal piumone, ti manda una squadra di free-climber lillipuziani vestiti da lavavetri acrobatici che si arrampicano veloci sulle pareti della tua anima per isolarla dal corpo, piazzando lastroni di qualche materiale dolore-repellente che ti renda capace di vivere, andare a bere, fare la pipí, lavarti i denti, aprire il frigo mentre il male continua a friggere ma a volume bassissimo, piú lontano, come una brace. Ti arriva soltanto la puzza di bruciato. A raffiche.
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Piú cercano di farmi vedere che Jacopo è uno che con me non c'entra niente, piú io mi convinco di avere trovato l'uomo della mia vita, di averne compresa l'essenza, il suo io originario, quello che non si mostra a nessuno per paura, o pudore. Di aver creato con lui un legame inscindibile perché solo io, concentrata su di lui, mento al petto e occhi chiusi, ho visto il centro del vulcano da cui nasce il fuoco, il nucleo dell'atomo che origina protoni di verità assoluta, la particella infinitesimale che brucia senza sosta come fiamma di candela a illuminare la grotta delle sue pareti piú buie, quelle zone remote che ancora essudano acqua di fonte incontaminata e su cui scorgo le pitture rupestri della sua preistoria. Io l'ho visto quel posto, ci sono arrivata, trascinata da un raggio verde partito dal mio centro e diretto al suo, e lí ci siamo uniti per sempre, scambiati le nostre verità, il senso ultimo del mai detto, del mai ancora fatto, il cuore di noi, uguali, intimi, primitivi come il passato piú antico in cui la vita è per forza solo istinto, soddisfacimento di bisogni primordiali, molto prima della parola. Lí siamo, insieme, riconosciuti e annodati, solo noi due al mondo, contro il mondo, io lo so. E lui anche.
Sono gli altri che non lo sanno.
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Ci siamo uniti senza neppure salutarci, imitando la passione in un amplesso meccanico, repentino, sentivo il suo disinteresse infilarsi e sfilarsi da me, e dei due movimenti era il secondo a lacerarmi. Ti prego torna, pensavo, e quando rientrava comunque godevo, perché era lí. Restavo immobile per non essere in alcun modo complice del momento che presagiva la fine di tutto. Era un rischio, ho fatto bene a correrlo, niente dura in eterno, tanto piú un amplesso rubato e concesso controvoglia, e cosí l'ho sentito uscire per l'ultima volta. Un colpo finale e poi il ritrarsi fuori dal mio ventre, un ritrarsi cosí muto e lento che piano piano mi ha aspirato tutto quello che avevo dentro, lasciandomi come una confezione sottovuoto cui si è tolta l'aria. Cosí la mia pelle si è appiccicata alle costole e alle viscere come un'ustione e mi ha impacchettato il cuore e gli organi vitali.
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E all'improvviso mi sono accorta che è facile, a volte la soluzione di un problema grande puoi anche tenerla in tasca, perché è piccola come una chiave. Se togli il tappo quello che c'è dentro scorre sempre fuori, in un altrove che non ti riguarda piú, non può fermarsi, né rısta-gnare, né tracimare. Si sradica la possibilità che chicchessia stia a mollo inerte o addirittura affoghi, tutto va giú, via, e non esistono mani cosí veloci e capaci da fermare l'emorragia. E mentre quel mulinello gorgheggiava il suo canto del cigno, io mi beavo: per quanta violenza e astuzia usiate, tutti quanti, non ce la farete mai a prendermi.
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Ogni volta che appoggio la testa sul cuscino la mente si scioglie e si modella tra le tue mani, come guanti. Non sono capace di pensare perché hai le mani nervose e continui a muovermi. Vedo solo il contorno delle tue dita tra cui mi aggiro per cercare un posto dove mettermi calma a guardarti. Penso solo a loro, alle mani con cui mi portavi a spasso per il tuo corpo, e che si sono prese la mia testa giocherellandosela tra le dita, come una biglla. Sono qui, ad aspettarti. Cosa credi, che mi faccia paura un po' di distanza? Che poi l'altrove è sempre nel tempo, mai nelLo spazio. O forse pensi che il correre dei giorni possa in qualche modo influire sulla mia memoria? Forse quando sarò vecchia, per ora no. Basta resettarsi su un nuovo livello di difficoltà e siamo sempre in due a giocare, io e te.
Dici di non amarmi piu? Lo vedremo, ho tanti di quel ricordi cul arrampicarmi per risalire lungo 11 tuo corpo tino a rientrarti nella testa che prima o poi ce la faccio. Approfitto del sonno della tua ragione, e della mia che pure si addormenta facilmente. Vai via da Milano e ti trasferisci in Liguria? Cosa vuoi che sia, è qui, è lí, comunque è. Devo aspettare mesi, anni? Finché non sei morto, ho tempo.
Solo i morti non tornano piú. E forse neppure quelli se li tratti bene e sai tenerteli stretti.
«Mi manchi tanto», scrivo 10.
«Mi dispiace ma come sai tra noi è finita. Cerca di sta-
re bene», scrivi tu.
Rispondo subito: «Non posso star bene senza te... Ti amo immensamente.

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