#ALASKA BABY - IL NUOVO ALBUM DI CESARE CREMONINI
Ci sono
momenti nella carriera di un artista dove il passato sembra troppo ingombrante
e il futuro un enigma da decifrare. Per Cesare Cremonini quel momento è arrivato
dopo il concerto-evento del 2022 all’Autodromo di Imola, di fronte a 70 mila
persone. «Mi sembrava di essere una specie di Concorde che girava sopra
Bologna, ma senza un aeroporto dove atterrare», racconta, descrivendo il senso
di vuoto che può farsi spazio quando tutto sembra compiuto.
Da questa riflessione, e dal coraggio di
ripartire da «un’opera prima», nasce Alaska Baby, suo ottavo album
in studio (al quale seguirà un documentario in onda su Disney+). Un disco che
definisce «vitale ed esplosivo come un esordio», in uscita domani. Un viaggio
tra Bologna, l’America e l’Alaska, una sorta di personale Into the Wild che esplora
temi come la rinascita, il coraggio di amare, il desiderio di andare oltre i
propri limiti. Le 12 tracce mescolano Brit pop, canzone d’autore, groove
ipnotici alla Beck e ritornelli che omaggiano i Beatles, il tutto condito da
collaborazioni che sono diventate «amicizie e amori» con Elisa (Aurore boreali), Luca Carboni
(San Luca) o il pianista di
David Bowie, Mike Garson, che ha firmato pezzi intimi come Dark Room. «Nel viaggio ho
trovato l’origine del disco, il bianco in
copertina rappresenta la luce vitale che mi ha spinto a creare
un album capace di guardare al futuro».
Tra i brani
spicca Ragazze
facili, «una canzone scritta in cinque minuti, una redenzione, il
momento in cui butti giù la maschera e accetti il rischio di perdere tutto».
Non a caso il disco si chiude con Acrobati, che ci fa provare
l’equilibrio precario dell’artista, costantemente sospeso tra ispirazione e
giudizio. Ma sembra proprio che in questo equilibrio Cremonini trovi la forza
di rimettersi in gioco: «Rimaniamo sempre dei fogli bianchi. L’unica cosa che
possiamo fare è riempirli con sincerità». E in questa intervista, dove spiega
la necessità di perdersi per ritrovarsi, dice che l’anima «punk, strafottente e
la voglia di spaccare il mondo» è ancora dentro di lui, ma che «per come si sta
muovendo la comunicazione musicale intorno ai revival» non pensa a un revival
dei Lùnapop
Il viaggio di Alaska Baby parte
dal «pieno di ego» sentito dopo il concerto di Imola. Come si riparte con nuovi
stimoli quando tutti i desideri sembrano esauditi?
Finito il tour del 2022, con l’apice del concerto all’autodromo, non è stato
facile. È qualcosa che va oltre i sogni, no? Mi sembrava di essere una specie
di Concorde che girava sopra Bologna, senza l’aeroporto giusto per atterrare.
Sentivo il contrasto fra queste cose giganti e la vita reale. Ci ho messo molto
tempo prima di riuscire ad atterrare. Ma è necessario farlo, altrimenti un
decostruttore come me, di me stesso e anche del rapporto con gli altri, come fa
a ritrovare l’intimità? È stato un lavoro nel lavoro piuttosto duro.
E
quindi, come ci sei riuscito?
È stato importante annullarmi e ripartire. Un gesto di coraggio, perché alla
fine è anche un gesto nel quale ti stacchi dal microfono, che è una protezione.
Quanti di noi si nascondono dietro a un microfono? Mi sono messo in discussione
e alla ricerca di un’illuminazione, di qualche idea nuova. Mi sono accorto che il
disco era nato proprio durante questo processo. Nel viaggio ho trovato
l’origine, il coraggio di amare, la rinascita, che sono le essenze dell’album.
Alcuni tuoi colleghi,
ultimamente, sentono il bisogno di una pausa. Lo hai provato anche tu?
C’è una incoerenza, una specie di paradosso che si sta compiendo in questo
momento. Viviamo in un mondo di esordienti. Siamo tutti immersi in una realtà
che ripone tantissima attenzione alle opere prime. Le piattaforme su cui si
ascolta musica spingono gli esordi, sostengono l’energia vitale delle prime
volte. E questo mette gli artisti che hanno già una storia importante, come la
mia, di fronte a un giudizio severo.
Sembra un circolo
vizioso.
Effettivamente è strano vivere in una società che spinge gli esordienti in
maniera fortissima e allo stesso tempo non si interroga su dove sta andando.
Questo contrasto crea inquietudine. La luce dell’Alaska, quel bianco che ho
scelto in copertina, rappresenta la forza vitale che mi ha spinto a fare un
disco che contenesse le stesse energie inclusive e caotiche di un esordio. Nel
mio caso, per cercare di guardare al futuro, ho dovuto annullarmi e pensare che
solamente l’opera in sé, quando è un flusso di coscienza, contiene un briciolo
di speranza nel futuro. In quanto ai dischi d’esordio, dovremmo ascoltarli
senza giudicarli troppo. Compreso Alaska Baby, che è come se
fosse il mio primo disco. Contiene un barlume di speranza
Sia il
disco, sia il documentario su Disney+ sembrano un tuo personale Into the Wild, per il
modo in cui ti sei fatto ispirare dalla natura.
Me lo hanno fatto notare. C’è una sincronia, almeno emotiva e poetica con Into the Wild, però nel mio
lavoro non c’è un rifiuto della società, non ho maturato un rigetto per la mia
provenienza culturale. L’Alaska, ovviamente, è una parola che richiama certi
riferimenti musicali e letterari. Il disco finisce con Acrobati, che poteva essere
il titolo, anche se poi poi ho preferito Alaska Baby perché
suggerisce una narrazione più ampia e più vitale.
Acrobati descrive quel che provano gli artisti, sempre sospesi tra
ispirazione e giudizio del pubblico?
Sì, quel sentirsi costantemente su una fune, su una verità celata,
un’informazione confusa che ha bisogno di un filtro per arrivare al pubblico.
L’essenza di un artista, almeno per me, è riuscire a stare in equilibrio e
scrivere nuove pagine. In fondo rimaniamo sempre dei fogli bianchi e in questo
vuoto abbiamo la possibilità di riempire delle pagine con ciò che sentiamo, con
sincerità. L’aspetto più importante non è l’idea che un intellettuale indichi
la via. Credo che sia semplicemente l’esempio. Cioè, possiamo dire molto di più
con l’esempio di quello che mettiamo in un disco. Mostrandoci coerenti possiamo
trasmettere agli altri dell’energia.
Ho voluto coinvolgere tantissimi professionisti, a partire da Elisa che è una divinità da un punto di vista musicale, di produzione artistica e umano. Passando per Luca Carboni, che è una leggenda. E ancora i Meduza con le loro sonorità originali e Alessio Natalizia (Not Waving, ndr) che è un produttore straordinario. Tutte le persone che hanno lavorato con me, in realtà, sono diventate linfa vitale, sangue e organi di questo album. Non sono semplici collaborazioni, ma incontri, amicizie, amori, quelli nati intorno ad Alaska Baby. C’era il desiderio di perdersi tutti insieme dentro un obiettivo comune.
Nel tuo viaggio
attraverso l’America hai notato anche i segni che avrebbero riportato Donald
Trump alla Casa Bianca, oppure il risultato delle elezioni ti ha stupito?
Li ho visti e infatti non mi ha meravigliato assolutamente il fatto che Trump
abbia vinto. Viaggiando per tre mesi in America, avendo avuto il tempo di
guardare, osservare, partecipare in qualche maniera alla società in quel
momento, ho visto un Paese con una fortissima tensione che, ancora adesso, è
attenuata da quel pezzo di stoffa che è la bandiera. Ma è un pezzo di stoffa
sempre più fragile, sempre più rovinato dal tempo. L’America è sia chi cerca la
coesione sociale, sia Donald Trump.
Una delle chiavi
dell’album, come racconti nel documentario, è la canzone Ragazze facili.
Diciamo che Ragazze
facili contiene uno dei grandi temi dell’album, che è il
coraggio di amare. È la reazione a una patologia, secondo me molto diffusa e
anche pericolosissima di cui soffriamo un po’ tutti: il terrore del dolore.
Neanche la paura, proprio il terrore di provare sofferenza. Il coraggio che
serve a buttare giù la maschera e a proporsi per quello che si è veramente ci
dà la possibilità di capire che devi essere pronto a perdere qualcosa per
ottenere qualcosa di nuovo e importante. È uno degli stimoli maggiori che ho
trovato nel disco. Ragazze
facili è il mio momento di redenzione.
È una di quelle canzoni
che arrivano da sole, oppure c’è voluto più tempo?
L’ho scritta in cinque minuti, è avvenuto tutto in sincronia totale con quello
che mi stava capitando dentro, con quel processo di trasformazione. È una
canzone importantissima per me.
Invece San Luca sembra
il contraltare di 50 Special che
hai scritto con i Lùnapop. A 20 anni i colli bolognesi si percorrono con
spensieratezza in Vespa, dopo i 40 con un atteggiamento più riflessivo e quasi
mistico, anche grazie al supporto di Luca Carboni?
È come se San
Luca fosse costruita da tanti sampietrini. Ho chiesto a Luca
di camminare con me su quella piccola strada. Insieme abbiamo attraversato il
brano che in questo modo si è trasformato in un viale meraviglioso. Non finirò
mai di ringraziarlo per quello che mi ha donato. Anche solamente essergli
vicino mentre tornava a cantare dopo tanto tempo e dopo un’esperienza di salute
complicatissima. 50
Special e San Luca sono collegate
da qualcosa di fondamentale, cioè dal fatto che, ovunque tu sia, in Alaska o in
mezzo alla bufera, puoi prendere il binocolo, guardare oltre la finestra e
rivedere casa. Che è la cosa più importante nella vita.
Ai tempi dei Lùnapop
spaccavate le classifiche, ma ricevevate anche molte critiche. Oggi sei
considerato uno dei cantautori di riferimento da più generazioni. Come sei
cambiato?
Se ci ripenso oggi, i Lùnapop mi sembrano sempre più liberi, sempre più punk e
strafottenti, per certi versi. Avevamo quell’arroganza e quella voglia di
spaccare il mondo che erano figlie degli anni ’90. Che ci erano state iniettate
da una società che ti permetteva di suonare ovunque. Anche perché allora la
formazione di una band, per un adolescente della mia generazione, era
necessaria. Altrimenti venivi escluso. Se avevi 15 anni e non facevi parte di
una band, cosa facevi? C’era l’idea di produrre delle cose che ci facessero
partecipare come passeggeri attaccati a un filo culturale che doveva collegare
il passato al futuro. Era un momento storico in cui cadevano muri come quello
di Berlino, crollavano le ideologie della Guerra fredda, accadevano dei fatti
che nel mondo ci inducevano a parlare di pace, persino in Medio Oriente. Almeno
fino all’11 settembre del 2001 il mondo era in un modo, dopo è diventato
un’altra cosa. Io di quel periodo mantengo esattamente tutte le declinazioni in
positivo di quella energia. Ciò che è venuto in seguito, invece, mi sembra un
presente che va vissuto giorno per giorno, ma senza nostalgia.
Mantieni quell’energia,
ma sul ritorno dei Lùnapop mi sembri meno ottimista. O sbaglio?
Non penso, visto come si sta muovendo la comunicazione intorno ai revival. Se
questo dovesse riguardare anche i Lùnapop preferirei non farlo, sinceramente.




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