#CHIEDI ALLA POLVERE - JOHN FANTE
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Firmammo il registro dell'albergo, poi ordinammo un cocktail, ballammo un po', prendemmo un altro cocktail e io recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava meravigliosa perché ogni due minuti una fata mi fissava estasiata e io, il grande scrittore, ero costretto a farle un autografo sul menú, rendendo pazza di gelosia la mia compagna con la volpe argentata.
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-Ho un consiglio molto semplice da dare a tutti i giovani scrittori. Non tiratevi mai indietro di fronte a una nuova esperienza. Vivete la vita fino in fondo, prendetela di petto, non lasciatevi sfuggire nulla.
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L'oscurità scese lentamente, preceduta dal suo odore freddo. Sotto la mia finestra si stendevano la città, i lampioni stradali e le insegne multicolo-ri, che sbocciavano come luminosi fiori notturni.
Non avevo fame; sotto il letto c'era ancora un sacco di arance ma quel misterioso gorgoglio nello stomaco non era che l'effetto delle grandi nuvole di fumo che vi erano rimaste prigioniere e che cercavano freneticamente una via d'uscita.
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Quando finii, avevo il fiato mozzo. Le sue labbra spesse tremavano e le mani si torcevano sotto la stoffa inamidata delle tasche.
- Ti odio, - mi disse.
Lo sentivo, quest'odio. Potevo quasi annusarlo, o udirne il suono, ma sogghignai di nuovo. - Lo spero bene, - ribattei.
- Chi si attira il tuo odio
non può essere altro che un tipo in gamba.
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Giunto alla porta, mi fermai a guardarla un'ultima volta. Aveva ancora lo stesso sorriso. Le indicai il tavolo con il caffè rovesciato, poi le rivolsi un cenno d'addio e uscii. Ancora una volta mi sentivo proprio bene e, ancora una volta, mi parve che il mondo fosse un vero spasso.
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Finalmente arrivò, portando una tazza di caffè sul vassoio. Lo stesso caffè, la stessa tazza scura e sbeccata. Giunse con gli occhi piú neri e piú grandi del solito, camminando con passo leggero, sorridendo con aria misteriosa, finché credetti che sarei svenuto tanto mi batteva il cuore. Quando mi si fermò accanto, senti il lieve odore della traspirazione misto ali' acre lindore del grembiule inamidato. Ne rimasi sopraffatto, come istupidito, e respirai con la bocca per evitarlo. Sorrise come per farmi sapere che non se l'era presa per il caffè rovesciato; anzi, mi parve di capire che l'episodio le fosse piaciuto. Era contenta che fosse successo, quasi riconoscente.
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Rimasi lí, sorridendo mestamente, con il cuore che lacrimava per il mio racconto, per le sue frasi ben tornite, per i lievi tocchi di poesia che avevo Sparso qua e là; il mio primo racconto, la cosa migliore che avevo fatto in tutta la mia vita. Era la dimostrazione che in me c'era qualcosa di buono, approvato e pubblicato dal grande J. C. Hack-
muth, e lei l'aveva stracciato e gettato in una sputacchiera.
Dopo un po' spinsi indietro la sedia e mi alzai.
Lei era ancora in piedi davanti al bar e mi osservò uscire. C'era della pietà per me sul suo viso e un sorrisetto di rimpianto per quanto aveva fatto, ma io evitai di guardarla e mi incamminai, mentre l'orrendo frastuono dei tram e i rumori ostili della città mi risuonavano nelle orecchie, seppellendomi sotto una valanga di colpi e di cigolii. Mi ficcai le mani in tasca e proseguii con le spalle curve.
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Mi passò le dita tra i capelli e la sua gioia calda mi si trasmise dentro come un fluido; sentii la gola che mi scottava e una profonda felicità insinuarsi in ogni mia fibra. Sparí nuovamente dietro il tramezzo e, quando riemerse, aveva ai piedi le scarpe bianche. I muscoli della mascella le si con-trassero, mentre camminava, ma lei proseguí con coraggio. La guardai lavorare e la sua vista mi tirò su, facendomi galleggiare come olio sull'acqua. Dopo un po' mi chiese se avevo la macchina. Le risposi di no. Allora mi disse che l'aveva lei, era posteggiata nell'area di parcheggio dietro l'angolo.
Me la descrisse e decidemmo che l'avrei aspettata lí e che poi saremmo andati insieme alla spiaggia.
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Fermò la macchina su un'interminabile distesa di sabbia bianca. Restammo seduti a guardare il mare. Faceva caldo lí, sotto la scogliera. Mi toccò la mano. - Perché non mi insegni a nuotare? - disse.
- È pericoloso qui, - le risposi.
C'era alta marea e le onde si susseguivano velo-ci. Si formavano a un centinaio di metri dalla riva e poi si precipitavano verso terra, una dietro l'al-tra. Le guardammo esplodere contro la spiaggia, rombando e scagliando in aria arabeschi di spuma.
- Per imparare a nuotare bisogna che l'acqua sia calma, - le dissi.
Scoppiò a ridere e cominciò a svestirsi. La sua pelle era naturalmente bruna.
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- Ti piaccio ancora?
Le lanciai un'occhiata. Non riuscivo a parlare, e mi limitai ad annuire, sogghignando. Mise i piedi sulla coperta e mi disse di spostarmi. Le feci posto e lei si infilò sotto. Era liscia e fresca. Mi disse di abbracciarla e io la abbracciai, e lei mi baciò con le labbra umide e fredde. Rimanemmo cosí a lungo e io ero preoccupato, timoroso, senza desiderio. Una specie di fiore grigio si schiuse tra di noi, un pensiero che, quando prese forma, parlò dell' abisso che ci separava. Ero confuso, ma la sentivo in attesa. Le appoggiai le mani sul ventre e sulle gambe, cercai il mio desiderio, frugai scioccamente in cerca della mia passione, mi sforzai invano di trovarla mentre lei attendeva. Mi rotolai, strappandomi i capelli e implorando che si manifestasse, ma niente, non c'era niente. In testa non avevo altro che la lettera di Hackmuth e l'abbozzo di cose non scritte, ma dentro di me non c'era passione, solo paura, vergogna e umiliazione. Allora cominciai ad accusarmi e a maledirmi, e desiderai di alzarmi e tornarmene in acqua. Lei senti il mio distacco. Balzò a sedere sogghignando e prese ad asciugarsi i capelli nella coperta.
- Credevo di piacerti, - mi disse.
Non riuscii a risponderle. Mi strinsi nelle spalle e mi alzai. Ci rivestimmo e ripartimmo per Los Angeles.
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Non feci che pensarci per tutto il giorno. Ero ossessionato dalla sua nudità bruna e dal suo bacio, dal sapore della sua bocca quando era uscita dall'acqua, e poi vedevo me, bianco e verginale, che trattenevo il respiro per far rientrare lo sto. maco e mi coprivo i lombi con le mani. Passai ore intere a camminare avanti e indietro nella stanza.
Alla fine del pomeriggio ero esausto e la mia immagine riflessa nello specchio mi riuscí intollerabile. Mi sedetti alla macchina da scrivere e riversai sulla carta tutto quello che sarebbe dovuto accadere, pestando sui tasti con tale violenza che la mia piccola portatile prese a spostarsi lateralmente, allontanandosi sempre di piú da me. La descrissi come una tigre, che io avevo inchiodato a terra e sopraffatto con la mia forza invincibile. Nel finale, lei mi inseguiva carponi, piangendo e implorando pietà. Mi parve eccellente. Ma quando rilessi quello che avevo scritto rimasi molto deluso: non era che un cumulo di banalità. Strappai il tutto e lo gettai via.
Pag 92
“Molto ho scordato, Camilla, sulle ali del vento, E ho gettato rose, rose in tumulto tra la folla,
Danzando, per scacciare dalla mente i tuoi pallidi gigli perduti,
Ma ero svuotato e triste per l'antica passione, Sí, di continuo, perché la danza era lunga;
Ti sono stato fedele, Camilla, a modo mio”
Arturo Bandini
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- Questa sera farai l'amore con me, povero sciocco. Sí, questa notte mi amerai.
- E questo da dove l'hai preso? - le dissi.
Sorrise.
- Cosa importa? Tu non sei nessuno e io avrei potuto essere qualcuno, ma la nostra strada è l'amore.
Il suo profumo intenso aveva impregnato la stanza, che ora sembrava piú sua che mia. Mi sentivo un estraneo lí dentro.
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Tirai fuori il berretto di Camilla da sotto il cuscino, anch'esso era stato contaminato dall'odore: quando me lo portai alla bocca, mi parve di baciare quei capelli neri della donna. Mi sedetti alla macchina da scrivere, giocherellando con i tasti.
Pag 113
..ehi, dolcezza, ho avuto molta pazienza con te, ma adesso ne ho abbastanza della
tua arroganza, per cui fammi il piacere di toglierti in fretta i vestiti. E me ne sto sdraiato, tutto contento, a seguire con lo sguardo le mie fantasie
che si snodano sul soffitto.
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- Parlami di lei, - mi domandò.
Nemmeno questo potevo fare, stare con una donna e dirle quanto mi piaceva un'altra. Mi chiese se era bella. Risposi di sí. Mi chiese se mi amava. Le risposi di no. Poi il cuore prese a battermi veloce perché si stava avvicinando a quello che volevo che mi chiedesse. Aspettai, mentre mi accarezzava la fronte.
- E perché non ti ama?
C'era arrivata. Avrei potuto risponderle e tutto sarebbe stato chiaro, invece dissi: - Perché no, ecco tutto.
- Forse perché è innamorata di un altro?
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- Arturo, - mi disse. - Perché non facciamo che litigare? - Non lo sapevo. Forse dipendeva dal nostro carattere, ma lei scosse il capo e accavallò le
gambe e la vista delle sue belle cosce sollevate mi offuscò la mente con una densa sensazione soffocante e il desiderio intenso di toccarle. Ogni suo movimento - il morbido volgere del collo, i grandi seni che si gonfiavano sotto il grembiule, le belle mani appoggiate al letto con le dita aperte - mi provocava un turbamento e un senso di struggente pesantezza che sconfinava nello stordimento. E poi la voce, sommessa e appena soffusa di ironia, una voce che parlava al sangue e ai sensi. La pace delle settimane appena trascorse mi sembrava irreale, nient'altro che un'illusione: questo era vivere, poter guardare Camilla nel fondo dei suoi occhi neri, opponendo al suo disprezzo la speranza e una maligna soddisfazione.
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Mi voltai a guardar fuori della finestra, sentendomi addosso il suo sguardo. Avrei potuto toccarla, prenderla tra le braccia. Sí, Arturo, bastava che tu ti alzassi e ti stendessi accanto a lei, ma la notte sulla spiaggia, il sonetto stracciato e il telegramma d'amore aleggiavano nella stanza come fantasmi.
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Ci sdraiammo assieme. Stava cercando di forzare la situazione con il suo disprezzo, la piega dura delle labbra, il suo sguardo di scherno, finché mi parve di essere diventato di legno, senza piu’ sentimenti, se non il panico e la sensazione che lei fosse troppo bella per me, anzi, piú bella e piú salda di me. Mi rese estraneo a me stesso. Lei era come le notti calme e come gli alberi di eucalipto, le stelle del deserto, la terra e il cielo, e come la nebbia fuori, mentre io ero venuto lí con l'unico scopo di diventare uno scrittore, di arricchirmi, di farmi un nome e altre scemenze del genere.
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Non ero solo un grande scrittore, ero anche qualcos'altro; ora non avevo piú paura di lei e potevo guardarla dritto in faccia come un uomo guarda una donna. Se ne andò senza rivolgermi la parola. Io rimasi a sedere, immerso nel mio sogno, travolto da un'ondata di compiacimento: il mondo era grande e pieno di cose da afferrare. Ah, Los Angeles! Strade solitarie velate dalla nebbia e dalla polvere, io non sono piú solo.
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Non parlai né del libro né del contratto. Non aveva alcuna importanza, non era che un altro maledetto romanzo. Quel prurito negli occhi era per lei, per la ragazza sinuosa e selvaggia che avevo visto correre sulla spiaggia sotto la luna, e per quella che avevo visto danzare con un vassoio tra le braccia rotonde. Ora giaceva lí, spezzata, con i mozziconi scuri che traboccavano da un piattino accanto al letto.

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