#DUE VITE - EMANUELE TREVI



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Cosí come esiste l'orrore del vuoto, certi individui patiscono una vera e propria fobia dell'ornamento.


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Piú ti avvicini a un individuo, piú assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri.


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Per quanto si spingesse indietro nel passato, la memoria non riusciva a catturare un frammento di benessere che non fosse insidiato, accerchiato, contaminato da quell'oscura potenza.


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Inspiegabilmente, alla fotografia si associa l'idea dell' «immortalare», ma è un modo di dire sbagliato, non c'è nulla che piú della fotografia, in un modo o nell'altro sempre vincolata all'attimo e al presente, ci ricordi la nostra transitorietà e futilità. Come l'angelo con la spada infuocata (il piú incazzato e inflessibile degli angeli) il tempo ci sbarra ogni via del ritorno a quel paradiso terrestre che vediamo nelle fotografie, trasformando ogni gesto e ogni presenza nell'emblema di una caduta inarrestabile. D'altra parte, quell'attimo che la fotografia ritaglia nella durata può rendere visibile un'essenza, un aspetto permanente .del carattere.


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Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po' di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi.


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A innumerevoli esseri umani è dato questo destino, di ottenere molta piú felicità dall'amicizia che dall'amore.


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Un singolo ricordo può essere perfettamente lieto e spensierato, come una margherita che sboccia tra due gelate.


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Come l'amore (ma su questo punto sarà necessario tornare) anche la scrittura stimolava due dei talenti piú pericolosi e distruttivi di Rocco: l'arte di guastarsi il sangue per futili motivi e quella di rimanere deluso dal prossimo.


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«La luce ha invaso tutti gli angoli, cancella le ombre e rende ogni cosa di un colore uniforme». 


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C'è un tipo di saggezza che consiste nell'aspettare la verità come un eremita nel deserto, murato tra le proprie abitudini, insensibile alla mutevole varietà del mondo.


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È come se il velo dell'infelicità, appena prima della fine, cadesse a terra mostrando nuda la piú enigmatica, impalpabile, sfuggente delle divinità: la vita felice. 


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Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene.


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Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio, e le persone incantevoli spesso si consumano e infine si dissolvono nel loro sciame vorticante di minuscole luci.


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Quella che mi si fa incontro è un'immagine della totalità della vita, un'immagine che racchiude in sé ciò che è possibile sapere e ciò che non si può sapere, il giorno e quella parte della notte che, come nelle sonate di Chopin, non diventa mai la luce dell'alba, non passa, permane.


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Sicuramente non sono piú attraente agli occhi altrui, tuttavia: mi sento adesso più che mai connessa interiormente a una sorta di bellezza e armonia impalpabili. Una bellezza che va rivelandosi mano a mano che, con lo spegnersi, si estingue la sicumera dell'io, l'attaccamento al mondo. Mi sento riassorbire in qualcosa di piú vasto di me. 





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