#ADDIO MURA






Portate un bambino a Disneyland o in una pasticceria. Non otterrete la stessa emozione di un amante del vino che veniva ammesso nella cantina di Gianni Mura, nel palazzo liberty vicino alla Stazione Centrale di Milano dove ha vissuto per mezzo secolo. Anzi, le cantine: una non poteva sicuramente bastare per contenere le bottiglie che acquistava o che le case vinicole d’Italia spedivano a lui e alla moglie Paola («la vera enoesperta di casa, io sono solo un appassionato») sperando in una recensione. Che non sempre arrivava, anche se tutto veniva provato.

Però prova una bottiglia, provane due, di solito i cartoni erano da sei. Ne restavano quattro, e a colpi di quattro gli scaffali si erano così riempiti da obbligare Gianni e Paola a prendere anche un altro locale, lì accanto. Ogni tanto un amico poteva entrare e tra ragnatele e umidità sembrava quasi un antro stregato. Invece era un regno delle fate, da cui Gianni estraeva qualche bottiglia da regalare, dal Chianti al Barolo allo Sforzato a rari vini bianchi. Eppure, questa era un’altra magia, non si riusciva a capire da dove avesse preso quella roba: anche quando il dono era ricco gli scaffali sembravano non vuotarsi mai.

Chi entrava a casa Mura restava colpito invece dalle dimensioni: erano due appartamenti unificati. E poi i libri. Una quantità non misurabile, a volte ordinati anche con qualche criterio sugli scaffali, a volte impilati dove capitava. Non c’era mai disordine nel senso letterale, però, anzi. Un trattenuto caos creativo, diciamo. E il salotto era un gioiello di arte ed eleganza.

Ci pensava Paola, che pur scrivendo di enogastronomia col marito sul Venerdì spesso preferiva stare un passo indietro: era difficile – non impossibile – che i due facessero serata pubblica assieme, anche perché lei non ha mai seguito il calcio e va a dormire presto, lasciando libero il marito per i bagordi post-posticipo.

Andavano spesso in vacanza, quello sì, o sull’isola del lago di Iseo o a Ischia o nel Trentino di cui lei era originaria, e lì si scatenavano cacce ai funghi vinte quasi sempre da lei con gran rabbia di lui. Prendevano la Carlotta, che era l’auto di turno: qualunque modello fosse (quella attuale è una Fiat Sedici, Gianni amava le auto spaziose e da riempire), la chiamavano sempre allo stesso modo. Tempo poche ore anche gli interni più nuovi e profumati odoravano di sigaretta. Già, ne fumava tante, Gianni, e aveva varie volte tentato di mollare dopo alcuni problemi di salute. Ma stile Zeno Cosini, poi ricominciava pian piano e in numero crescente. Anche perché lui si illudeva (o illudeva gli altri di illudersi) che fumare mezza sigaretta bastasse: «La prima parte è quella più sana perché è la più lontana dal filtro, dove si accumulano le schifezze». Per cui tre boccate e via, poi magari subito un’altra, però mai accendendosi la nuova con la vecchia, quello lo faceva solo Brera (uno dei tanti motivi per cui lo ammirava), ma non aveva mai avuto il coraggio di imitarlo.

Il risultato è che consumava i pacchetti alla velocità di Bolt. E sempre rigorosamente Ms, e chissà ai Monopoli di Stato quanto saranno preoccupati per la mazzata economica in arrivo adesso che lui non c’è più. Le stecche erano soprattutto in ufficio, negli armadi: prima di rincasare Gianni prendeva una manciata di pacchetti e via. Perché anche Paola fuma, anche se aveva provato a smettere tempo fa per solidarietà col marito, e chi fuma davvero sa che esistono pochi atti d’amore più forti e generosi di questo.

Non c’era, in casa Mura, un computer, e anche questo può non essere esattamente una sorpresa: la sua allergia all’Arnese, lo chiamava così, era nota e ostentata. Lo aveva al giornale, ovviamente, prima da scrivania, poi un portatile anche se l’ostilità non era certo cambiata, anzi. Ogni due per tre si trovava alle prese con difficoltà tipo le dimensioni del carattere, o un testo che spariva improvvisamente per una manovra maldestra, o una stampa venuta male. E le sue richieste di aiuto erano continue quanto irresistibili.

No, casa Mura era il regno delle macchine per scrivere, rigorosamente Olivetti, e ne aveva cinque, Lettera 32. Una era appartenuta a Gianni Brera, dono della vedova Rina («So che ne farai buon uso»). Mura in verità non la usò mai, ma la prestò a un giovane collega per l’esame da professionista, dove ancora i computer erano vietati (il collega scelse la traccia di sport, sul Chievo che stava sbalordendo l’Italia e che fu l’ultimo amore calcistico di Mura). Ma se c’erano tante macchine per scrivere il motivo era anche un altro: al Tour de France 2001 a Liegi gli avevano aperto l’automobile e rubato tutto, compreso la Lettera 22 verde acqua, d’alluminio, regalo dei genitori per il Natale del ’64, e che lui poi battezzò Charlotte.

Dovette adattarsi a scrivere a mano e dettare i pezzi, ma per poco: dopo aver raccontato del furto nel suo reportage, due lettori gli fecero recapitare le proprie macchine attraverso Stella Somma, “Nostra Signora della Segreteria” secondo Gianni. Altre due le aveva comprate Paola via Internet. Al Tour portava ancora un’Olivetti di scorta («Martine fa la panchinara nel baule»). Ormai tutte usate quasi come fermacarte, come oggetto di arredamento. Pigiando su quei tasti, suonano ancora tutte. Ma da lì non usciranno più articoli come i suoi.



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